Imprenditore deposita alcuni marchi con le espressioni “Black lives matter” e “I can’t breathe” di George Floyd. L’Ufficio Marchi inglese lo ha fermato grazie a centinaia di tweet
George Floyd e gli altri casi di razzismo
A Minneapolis (Stati Uniti), il 25 maggio 2020 il quarantaseienne afroamericano George Floyd muore durante un controllo da parte di alcuni agenti di polizia bianchi soltanto per aver comprato delle sigarette con banconote false in un negozio. Le immagini dell’arresto e del soffocamento di George Floyd sono sequenze indimenticabili e la sua morte ha scatenato una vera e propria ondata di proteste in tutto il mondo.
È la prima volta che un gruppo di poliziotti bianchi picchia fino alla morte una persona di colore per piccoli reati? Purtroppo no e sono tanti i casi in cui la polizia ha abusato del suo potere per ammazzare innocenti come George Floyd.
Basta ricordare Mike Brown, il diciottenne ucciso a Ferguson (Missouri) nel 2014 da un poliziotto bianco; sempre nel 2014 il quarantatreenne Eric Garner che, mentre stava vendendo illegalmente sigarette a Staten Island (New York), viene fermato da un poliziotto che lo sbatte per terra facendo pressione su collo e, proprio come Floyd, muore poco dopo; oppure Freddie Gray, venticinque anni, che nel 2015, dopo essere arrestato e portato a forza in un van della polizia a Baltimora (Maryland), muore una settimana dopo per lesioni alla spina dorsale. Per Mike Brown ed Eric Garner non c’è stata giustizia perché i poliziotti non sono mai stati incriminati.
Questi sono solo alcuni nomi di una lunga lista di afroamericani uccisi da poliziotti bianchi e, senza andare lontano, la storia di George Floyd ricorda quella dell’italiano ventunenne Willy Monteiro Duarte originario di Capoverde (Africa), vittima del brutale pestaggio a Colleferro (Roma) il 5 settembre 2020 da parte dei fratelli Bianchi.
I marchi dell’imprenditore di Manchester e l’Ufficio Marchi inglese
George Floyd oggi è il simbolo del razzismo contro i neri e la sua frase pronunciata pochi attimi prima della sua morte, “I can’t breathe”, è diventata così famosa che, tra il 5 ed il 6 giugno 2020, Georgios Demetriou, imprenditore cinquantasettenne di Manchester (Regno Unito), ha depositato quattro marchi in serie per offrire servizi di beneficienza aventi come oggetto la famosa frase di George Floyd. Per i suoi marchi Georgios Demetriou ha usato anche un’altra espressione, quella che in questi anni si sente spesso nelle piazze di tutto il mondo, ovvero “Black lives matter” (NdR., ovvero “Le vite nere contano”), grido di protesta contro il razzismo.
Bellissima iniziativa, peccato che è venuta fuori la notizia secondo cui l’imprenditore aveva depositato i marchi con l’intenzione di addebitare le royalties qualora qualcuno avesse usato una delle due frasi e sui social sono incominciati gli insulti e i commenti di disprezzo.
Cosa è saltato in testa a Georgios Demetriou? Sfruttare il movimento contro il razzismo e una frase pronunciata da una persona in punto di morte? Mentre succedeva tutto questo, l’Ufficio Marchi inglese, a quanto pare, era impegnata a sorseggiare il the con i biscotti. Fortunatamente, dopo centinaia di tweet che condannavano l’iniziativa dell’imprenditore, Georgios Demetriou, il 17 giugno, è stato costretto a rinunciare alle sue domande di marchi. Come ha fatto l’Ufficio Marchi inglese a togliersi dall’impiccio? Ha rassicurato tutti confermando che le domande dell’imprenditore inglese erano ancora oggetto di scrutinio e che, guarda un po’, erano benvenute eventuali osservazioni in merito.
I seguaci di Georgios Demetriou
Georgios Demetriou non è l’unico ad aver depositato queste espressioni come marchio e infatti ad oggi, in tutta Europa, sono pendenti circa una ventina di domande di marchio per “Black lives matter” e circa una decina di marchi hanno come oggetto l’espressione “ I can’t breathe”.
Per vedere rimosse queste domande bisognerà aspettare che il titolare rinunci a queste – come ha fatto Georgios Demetriou – oppure i vari Uffici Marchi europei si decideranno a intervenire prima? Staremo a vedere.
Intanto l’Ufficio Marchi Statunitense tra il 2015 e il 2016 ha rigettato circa una trentina di domande aventi come oggetto l’espressione “Black lives matter” perché, come hanno dichiarato, spinge il consumatore ad acquistare il prodotto non per un’azienda ma per una determinata ideologia e quindi il nome non è idoneo a svolgere la funzione distintiva ed imprenditoriale tipica di un marchio.
* Credits to Lara Nokodian (per l’immagine di copertina)
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